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Solitudine da tradimento

di Gianfranco Ravasi

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Domenica 28 Marzo 2010
Solitudine e tradimento

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È questo lo «scandalo della croce» proclamato da Paolo; è questa la kénosis, lo "svuotamento", una sorta di grado zero a cui si vota Dio per incontrare veramente la sua creatura, come lo stesso Apostolo ribadirà nel famoso inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi. È per questo che una delle prime eresie, quella gnostica, cercherà di edulcorare e stemperare questo scandalo ricorrendo a una morte solo apparente di Cristo in croce, tesi ereditata dal Corano che introdurrà un sosia sul legno della crocifissione per evitare una simile umiliazione del Profeta Gesù. In realtà, è proprio qui l'originalità del cristianesimo che va ben oltre l'idea del Dio compassionevole che si china sulla sua creatura – necessariamente finita e caduca – dall'alto del cielo dorato della sua trascendenza per offrire qualche sollievo miracoloso. No, Dio scende e s'incarna, s'innerva Lui, infinito, nello spazio, Lui, eterno, nel tempo e nella finitudine, Lui, assoluto, nel relativo e nel contingente.

Ma proprio perché Cristo rimane sempre Dio – anche quando soffre, muore ed è sepolto come cadavere – in quella realtà umana e creaturale egli lascia l'impronta della sua divinità, vale a dire la trasforma e la trasfigura, deponendo in essa un seme di eternità, un germe di salvezza e redenzione. È proprio questo il senso della successiva risurrezione che non è una mera rianimazione di un corpo; è, invece, una vita piena e perfetta che si irradia da Cristo all'umanità intera. Il transito autentico di Dio nell'essere umano, il suo divenire uomo tra gli uomini, spalla a spalla con noi, incide una scia di luce nella creaturalità, nello stesso essere fisico e nella storia. Quella di Cristo è stata un'immersione e un'irruzione vera e totale nell'intero arco dell'esistere umano per fecondarlo e trasfigurarlo, redimendolo così dalla schiavitù della corruzione, della morte, del peccato. Di fronte a questa sorprendente concezione teologica si riesce a comprendere la reazione dell'ebreo Kafka che all'amico Gustav Janouch a proposito di Gesù di Nazaret dichiarava: «È un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».

Abbiamo condotto una riflessione sulla cristologia, còlta nel suo nodo capitale, nel suo apice tematico. L'abbiamo fatto, prescindendo dall'accoglienza o meno che ogni nostro lettore può compiere, ma solo perché ciascuno cerchi di avere almeno un quadro generale della concezione che ha generato una vastissima porzione della nostra stessa civiltà occidentale, senza la quale – come affermava Thomas S. Eliot – è impossibile comprendere lo stesso Voltaire o Nietzsche (che considerava Gesù come l'unico vero cristiano, finito però in croce), ma anche il nostro stesso volto nella sua identità culturale o spirituale. Vorremmo adesso concludere con un breve excursus nella contemporaneità e nell'"attualità" attraverso un poco noto, ma suggestivo poemetto, Pasqua a New York, composto nel 1912 da Blaise Cendrars, poeta, narratore, sceneggiatore di film, reporter internazionale, nato nel 1887 in Svizzera da madre scozzese e da padre svizzero e morto a Parigi nel 1961.

Ecco alcuni versi da lui pronunziati davanti al Cristo crocifisso in una città "laica" come la metropoli americana, una città che non sembra conoscere il riscatto della sofferenza e della morte nella risurrezione: «È oggi, Signore, il giorno del tuo Nome, / ho letto in un vecchio libro le gesta della tua passione / e la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole / Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; / ma tu cammini, Signore, stasera accanto a me. / Il tuo costato aperto è come un grande sole, / le tue mani tutt'intorno palpitano di scintille / Fu a quest'ora, verso l'ora nona, / che cadde, Signore, sul petto la tua testa / Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà / per vedere l'irradiarsi della tua Beltà...».

Uomo vagabondo, combattente della Prima guerra mondiale ove perse una mano (La mano mozza è il titolo di un suo romanzo), maestro dell'avanguardia, Cendrars si lascia per un momento conquistare da quel crocifisso, contemplato prima solo su vecchi libri o nei musei. E mentre passa per le vie distratte di New York, in mezzo a prostitute e affaristi, egli sente accanto a sé una presenza. È lui, quel Cristo dal costato aperto, che irradia luce dalle ferite dei chiodi delle mani. È lui che all'ora nona, cioè le tre pomeridiane, reclina il capo nel sonno della morte. «Signore» continua il poeta «sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori. / Penso ai due ladroni ch'erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati...». E la poesia prosegue in una miscela di dubbio e di fede, di ordinaria miseria metropolitana e di antica speranza cristiana: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il Sangue della tua morte / Signore, rientro stanco, solo e molto triste. / La mia camera nuda è come una tomba. / Signore, sono troppo solo. Ho freddo. Ti invoco».

Domenica 28 Marzo 2010
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